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“Il proposito che mi induce a scrivere questo libro sul- l’arte dei costruttori italiani di chitarre è quello di una giusta e doverosa rivaluta- zione della loro opera, mi- sconosciuta e sot- tostimata.” Così Angelo Gilardino si espri- me nell’Introduzione a Il legno che canta – la liute- ria chitarristica italiana nel Novecento (Curci, 182 pp. più 12 tavole fotografiche). Proget- to che trova realizzazione concreta in un rac- conto delle vicende professionali e umane di Luigi Mozzani, Pietro Gallinotti, Giuseppe Lec- chi, Lorenzo Bellafontana, Mario Pabé e Nico- la III De Bonis, artefici di una lettura italiana della chitarra classica, ispirata al modello spa- gnolo ma distinta nel suono e nella costruzio- ne. Il volume è diviso in due parti, parallele e complementari. Quella firmata da Gilardino, più estesa, esprime il punto di vista dell’ex-con- certista, dello storico e del ricercatore, con la narrazione di emozionanti “incontri ravvicina- ti” e lo scoop sulla scoperta di Pabé. In appen- dice, una guida che illustra la procedura per pro- vare una chitarra. La seconda parte è firmata dal liutaio Mario Grimaldi e, fra l’altro, appro- fondisce gli aspetti costruttivi, rimanendo co- munque in un’ottica accessibile e divulgativa. Una lettura utile e avvincente, che ci ha indot- ti a contattare l’autore per l’intervista che se- gue. Quali ragioni la hanno spinta a partecipare alla ste- sura di Il legno che canta? La spinta principale è venuta dalla mia passio- ne per la storia in generale e per la ricerca sto- rica intorno alla chitarra, ai suoi artisti e ai suoi artefici. Deve trattarsi – io credo – di una sorta di compensazione di natura immunitaria che im- pedisce all’altra mia e soverchiante passione, quella per la composizione, di prendere pos- sesso incontrastato della mia mente e della mia persona, e di divorarle. Mentre, nel comporre, mi lascio andare all’immaginazione, nella ri- cerca storica e nella scrittura che ne consegue, mi comporto come un amanuense, e lavoro so- lo di studio e di pazienza. Ciò premesso, con questo libro intendevo contribuire alla scoper- ta e alla valorizzazione della liuteria italiana del Novecento storico, e ho cercato di farlo con l’u- nico metodo a mio giudizio plausibile: quello della costruzione di una prospettiva storica, la quale soltanto permette di comprendere le ope- re di chi ci ha preceduto. Una visione carente di prospettiva conduce a quella continua, steri- le, vacua reiterazione di luoghi comuni, di fra- si fatte, di affermazioni senza fondamento e sen- za riscontro. Come si è svolto il lavoro preliminare di ricerca per la preparazione del libro? Alla base c’è un’esperienza di sessant’anni, la raccolta dei dati è consistita in una selezione dell’enorme materiale accumulatosi in varie for- me da quando ho incominciato a studiare chi- tarra, nel 1954, fino a oggi. Da p. 111 approfondisce la questione del “suono ita- liano”. Come ne definirebbe le peculiarità? Il suono italiano è improntato al canto, si pre- sta alla definizione pura delle linee, sia melo- diche che contrappuntistiche. Negli appunti di Mozzani troviamo evidenza chiarissima di que- sta ricerca: le chitarre spagnole gli sembravano carenti proprio nella vocalità, e cercava solu- zioni atte a rendere il suono migliore e più du- revole nel registro acuto. Il suono italiano accomuna i liutai citati nel libro: in questo suono, è possibile individuare la voce carat- teristica di ciascun liutaio? Per molti aspetti sì, ciascuno dei maestri che io ho scelto per la mia trattazione ha lasciato nei AXE MARZO_2014 33