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MARCO SFOGLI
N.W.O.N.M.?!

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Axe 132



Parlare della musica napoletana è un po’ come parlare della pizza… È famosa in tutto il mondo e gli italiani, in questo caso emigranti, hanno fatto da “portatori sani” per la diffusione di questa altisonante accoppiata made in Italy. La pizza nel tempo ha acquisito, pur mantenendo la stessa base, caratteristiche aromatiche ed estetiche notevolmente diverse, proponendosi con nuovi gusti a nuovi palati. Possiamo certamente dire lo stesso per la musica, concentrando il fascio di luce sulla sua parte a noi più cara: la strumentale chitarristicamente orientata. Musicisti come Livio Lamonea, Mimmo Langella, Ciro Manna e Marco Sfogli, citati in ordine alfabetico e per i loro recenti lavori, sono i rappresentanti di quella che, usando un paragone e relativo acronimo che nei tardi anni ’70 dalla Gran Bretagna fece il giro del mondo, potremmo definire come la new wave of napoletan (guitar) music ossia NWONM…
Questi chitarristi, pur mantenendo un grande senso melodico radicato nelle tradizioni musicali della loro terra, propongono una personale interpretazione della musica, ognuno secondo il proprio stile e le proprie influenze e ispirazioni. Nel caso del nostro interlocutore, Marco Sfogli, la M finale dell’acronimo potrebbe stare a significare, in modo assolutamente proprio, metal.
Balzato improvvisamente nel 2005 all’attenzione dei fan del prog metal dei cinque continenti per essere stato scelto per il suo progetto solista Element Of Persuasion e relativo tour dal signor LaBrie, canadese che di nome fa James e di professione canta nella prog metal band più famosa del mondo, i Dream Theater, Marco si propone con il suo primo lavoro strumentale, There’s Hope (Lion Music). Altre collaborazioni prestigiose si registrano negli album del tastierista statunitense Jordan Rudess The Road Home e col batterista, pure statunitense ma di chiare origini italiane, John Macaluso (Malmsteen, MCM) The Radio Waves Goodbye. Da segnalare, in ambito strumentale, la sua partecipazione al progetto The Alchemists II, succulenta raccolta di brani “a quattro mani” e dita dalla Liquid Note Records e all’esordio discografico del virtuoso tastierista siciliano Alex Argento Ego. Proprio dall’emblematico e ottimista titolo del suo primo album, There’s Hope (c’è speranza) partiamo per questa chiacchierata col ventottenne napoletano figlio d’arte.

Concedici un riferimento d’attualità in connessione al titolo della tua opera prima. A cosa ti riferivi esattamente quando hai scelto questo titolo, alla situazione italiana o mondiale?
Sicuramente alla situazione globale. La copertina mostra un po’le varie fasi di questa epoca, diciamo così, “bizzarra” in cui viviamo. L’idea era quella di mettere in mostra in maniera abbastanza chiara e d’impatto ciò che stiamo affrontando e soprattutto dove stiamo andando a finire. Alla fine io e Alex Argento - che ha curato l’artwork del disco - abbiamo convenuto che chi ne sta facendo veramente le spese è il pianeta. Del resto se c’è una cosa che non ha mai fatto male a nessuno è proprio l’arte, in qualsiasi forma la si proponga.

Il tuo lavoro mi ha dato un’impressione di estremo equilibrio, come se avessi voluto, pur considerandone la matrice metal, dichiarare il tuo amore per le frasi e le melodie…
E infatti il mio amore per lo strumento nasce proprio dall’ascolto di musica tutt’altro che metal. Non mi posso definire un “metallaro”; quando suonavo nelle varie band da ragazzo, ero uno di quelli che andava nel panico quando si doveva rifare il classico dei Metallica o degli Iron Maiden, per esempio… Questo semplicemente perché non ho mai ascoltato il metal puro; provengo piuttosto dall’hard rock e da tutto il filone AOR anni ’80, che ho letteralmente consumato durante i miei primi anni di studio, ed è probabilmente da quel mondo che proviene il lato melodico.

Parlaci dei tuoi compagni di cordata.
Tutti i musicisti che hanno suonato nel disco sono prima di tutto grandi amici, persone con le quali ho condiviso momenti importanti non legati solamente al fattore musicale. In ordine puramente casuale, Salvyo Maiello è un amico di vecchissima data, suoniamo insieme oramai da dieci anni o più; riesce a rendere semplice anche la parte più assurda, con una naturalezza incredibile; è un batterista con la B maiuscola e gli voglio un gran bene. Ho conosciuto Alex Argento tramite Internet 5 o 6 anni fa, e da allora siamo, come si dice, “culo e camicia”; ho sentito pochi tastieristi fare quello che fa lui, e non parlo solo in termini puramente tecnici; ha un gusto fuori dal comune e una grande sensibilità. Andrea Casali [bassista] è il più giovane del gruppo, ma suona come uno di dieci anni più grande; ha il raro dono di non strafare quando si tratta di registrare, è essenziale ed efficace. Questa è la line-up principale, quella che farà parte anche della band dal vivo. Vorrei inoltre ringraziare tutti gli altri musicisti che hanno suonato sul disco perché hanno fatto un lavoro davvero eccellente.

Ora spazio a chitarre, ampli, effetti usati e a come hai ottenuto questi suoni eccellenti…
È stato fatto tutto nel mio home studio. Ho un piccolo sistema ProTools che mi ha permesso di risparmiare tempo e salute soprattutto, a discapito della salute dei vicini, ovviamente. Per quanto riguarda le chitarre, ho usato principalmente il mio modello signature della Rash, corpo in pioppo e manico in acero con tastiera in ebano 24 tasti e ponte Floyd Rose. I pickup sono Di Marzio, di cui sono endorser, per la precisione un Air Norton al manico e un D Sonic al ponte. Come ampli, mi sono affidato ai Mesa/Boogie, di cui sono endorser: preamplificatori Studio Preamp e Triaxis, te-stata Lonestar, che ho usato sui pezzi più calmi. Ho usato inoltre un paio di overdrive della MI Audio, il Blue Boy e il Tube Zone, soprattutto insieme alla Lonestar. Altri effetti, tipo delay e riverberi, sono stati aggiunti successivamente sfruttando normali plug-in.

Con tutte le uscite di CD strumentali chitarristicamente orientati che si succedono alla faccia del sempre più basso livello di vendita, viene spontanea una domanda: secondo te quanta è la passione e quanto il protagonismo che spinge in tal senso?
Passione sicuramente tanta, visto che non è un genere che “tira” e, soprattutto, che vende poco. Voglia di protagonismo non saprei, di sicuro non per me. L’idea di fare un disco solista è nata soprattutto dalla forte richiesta da parte dei fan che avevano ascoltato il lavoro fatto con James LaBrie. Non mi sono mai considerato uno shredder o semplicemente un solista in grado di mantenere un palco da solo; ho sempre preferito la dimensione di gruppo. C’è anche da dire però che la soddisfazione che ti porta un disco tuo non è minimamente paragonabile a qualsiasi altra collaborazione, per quanto grande e importante.


 

Quali sono a tuo giudizio i brani che più ti rappresentano in There’s Hope e perché?
Ognuno ha un suo perché e una storia dietro. Quello forse più rappresentativo del mio modo di suonare e concepire la musica è Sunset Lights: c’è un po’di tutto ed è stato uno dei più complicati da ultimare; non ne ero mai soddisfatto.

Che effetto fa salire su un palco a fianco del più famoso cantante prog metal del mondo?
Bella domanda. Se dicessi normale, probabilmente nessuno mi prenderebbe sul serio… Ma così è stato, nel senso che ho avuto un bel po’di tempo per abituarmi all’idea di dover affrontare prima un disco e poi un eventuale tour con LaBrie, non potevo certo mostrarmi insicuro. La cosa singolare alla fine è stata che, di tutti gli elementi del gruppo, ero forse il meno teso.

Considerando la valanga di chitarristi validi che avrebbero potuto essere al tuo posto, cosa pensi che abbia colpito maggiormente James LaBrie del tuo stile?
Probabilmente il lato melodico, anzi direi sicuramente il lato melodico. Era alla ricerca di uno che aspettasse il momento del solo per sollevare il brano piuttosto che infilare diecimila note al secondo. Tra l’altro mi è stato espressamente richiesto di essere più melodico che tecnico nei soli, proprio per dare maggior risalto ai brani piuttosto che ai singoli passaggi.

Come hai lavorato sull’aspetto melodico e quali sono state le tappe fondamentali per costruirlo e svilupparlo?
Quando ho incominciato ad appassionarmi seriamente alla chitarra, ho dedicato molto più tempo a cercare di capire come ottenere un suono, una certa espressività che non semplicemente a come andare veloci. La tecnica è venuta di conseguenza, ma all’origine c’è stato uno studio molto più intenso sul tocco e via dicendo. Per ottenere il miglior risultato possibile, ovviamente ho dovuto copiare da qualcuno, cercare di emulare soprattutto il tocco di qualcun altro. In questo mi è stato di grande aiuto l’ascolto di molti chitarristi tra i quali [Joe] Satriani, Kee Marcello, [John] Petrucci e Steve Lukather. Solo successivamente ho scoperto Andy Timmons di cui mi sono letteralmente innamorato e dal quale credo di aver attinto a piene mani!

I musicisti sono incontentabili, c’e’ sempre qualcosa da sviluppare e migliorare… Nel tuo caso?
Nel mio caso scrivere brani migliori! Non sono uno che si scervella troppo riguardo questa o quella tecnica, ecc.; l’importante per me è essere in grado di scrivere un buon brano. E il più delle volte sono ipercritico nei miei confronti, ho sempre l’impressione che manchi qualcosa o che qualche passaggio sia troppo banale. Scrivere un buon pezzo viene prima di tutto!

Chi sono i chitarristi che ti ispirano di più e che ti piace ascoltare attualmente?
Sto ascoltando molti gruppi più che singoli chitarristi, roba molto “modern”, tipo Nickelback, Linkin Park o Disturbed, tanto per citarne alcuni. Trovo che scrivano canzoni molto dirette ed efficaci. Tra i chitarristi, direi Andy Timmons, che ammiro e stimo moltissimo.

Lo stesso Timmons racconta che ascolta molto poco Eric Johnson, pur apprezzandolo moltissimo, perché ne rimane “invischiato” al momento di suonare e comporre… C’è qualcuno da evitare anche per te?
Lo stesso accade a me proprio con Timmons, per esempio, o con Petrucci fino a un po’ di tempo fa. E sul disco si sente in alcuni momenti: sono quei chitarristi che prima o poi finiscono per influenzarti… Li vedi suonare dal vivo e capisci che la chitarra è veramente un’estensione del loro corpo.

Tra la tua musica e le collaborazioni, ti si può sicuramente definire un musicista impegnato…
Cerco di tenermi impegnato quanto più è possibile, scrivendo brani o semplicemente impartendo lezioni private. L’importante è che si tratti di musica. L’aver vissuto in una famiglia di musicisti mi ha fatto capire che questo è un lavoro serio oltre che una gran passione, fatto di tanta dedizione, di gioie e anche di dolori. Per cui cerco di non buttare nulla perché tutto porta esperienza.

Guglielmo Malusardi 

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